venerdì 18 aprile 2008

La storia


La Storia
(piccoli accenni)
Sono registrato all'anagrafe come nato il 16 giugno 1949 a Palermo, ma certamente non è quello il giorno in cui sono venuto al mondo; mia cugina Mariella nacque almeno 12 ore dopo di me e risulta registrata all'anagrafe di Palermo l'8 giugno di quel 1949. In quel tempo, tutta la famiglia, per le operazioni riguardanti la burocrazia della pubblica amministrazione, s'affidava alla zia Nunzia, (sorella della mia nonna paterna, Amalia) che in definitiva con la (forse) sua terza elementare, rappresentava l'intellettuale della famiglia.
Mia madre mi partorì nella casa della nonna Amalia, in quello che oggi è un vecchio palazzo sito quasi di fronte al nr 23 della via Nicolò Spedalieri: via adiacente alla ben più famosa via Montalbo, strada mercato e “facoltà universitaria” del crimine.
Altro fatto certo è che la casa, ed il lettone della nonna Amalia, negli stessi giorni ospitarono anche la zia Lucia, (moglie di mio zio Gioacchino fratello di mio padre) e mia cugina Mariella, alla quale forse anche per questo, mi sono sentito molto legato, anche se per più d'un ventennio, non ci siamo più visti e ne parlati.
Un anno dopo la mia nascita, mio padre, fu finalmente in grado d'affittare una casa tutta per noi in via Castellana Falde, sita vicino e proprio parallelamente, alla via Pietro Bonanno che costeggia e sale sul Monte Pellegrino;
Il ricordo del primo vero contatto con gli attori del mondo del crimine e accostato ad un incontro che molto probabilmente avvenne nel mio primo anno di frequenza scolastica, segnandomi moltissimo.
Era un tardo pomeriggio che potrebbe avere il volto della primavera e/o dell'autunno, e con il mio padre, mi trovavo in fondo alla via Montalbo, proprio all'altezza dove una volta c'era l'Arena Micron (un cinema all'aperto). Ero molto orgoglioso del mio papà... con lui vicino mi sentivo sicuro e forte. Mentre ci dirigevamo verso il cuore del mercato, cominciavo a pensare a quel buon dolce che sicuramente mi avrebbe comprato, in una delle pasticcerie esistenti in quel tempo nella via Montalbo; quelle che andavano per la maggiore erano Manzella e Rostiglione.
Fantasticavo, pensavo al dolce che avrei mangiato da lì a poco, quando la mano di mio padre mi trasmise una sorta di cambio d'umore; alzai gli occhi e lo vidi mentre si toglieva il cappello ed accennava ad un inchino di rispetto verso, un uomo quasi anziano, che fermato il cavallo del suo calesse, rispose con “affettuosa boriosità” al saluto di mio padre e gli chiese di me... i pochi minuti che mio padre e quell'uomo si parlarono, furono vissuti da me con pesante insofferenza; m'infastidiva, l'atteggiamento rispettoso assunto da mio padre con quel suo interlocutore, che parlava con il “cuore in mano” ma, non riusciva a convincermi delle sue bontà....
Poco tempo dopo, anno 1956, cominciò la mattanza e molti fra i Galatolo morirono; Tanù Alatù” (il leggendario capo, molto probabilmente tradito dal suo guarda spalle) fù ucciso proprio sul cavalcavia che accosta il mercato ortofrutticolo di Palermo; altri loro alleati e parenti morirono in quelle settimane, sotto i colpi di Cavataio e compari; di un (Munafò) parente dei Galatolo vidi quasi, la morte in diretta avvenuta in via dei Cantieri. Mi trovavo con altri bambini più grandi di me, in una rosticceria (di panelle e crocchè), in quel tempo sita di fronte al mercato ortofrutticolo, proprio all'angolo di via Montepellegrino e prossima alla via dei Cantieri. Subito dopo la sparatoria era iniziato il fuggi, fuggi... gli adulti fuggivano per sparire dalla scena, noi bambini andavano di corsa incontro e dentro la scena.... forse sentivamo dentro di noi che, dovevamo necessariamente imparare a convivere con quel mondo.
Qualche tempo dopo, sentendo parlare gli adulti, appresi che don Angelo Galatolo, di cui tanto m'aveva infastidito la mielosa arroganza in quell'incontro con il mio papà, era morto nel suo letto... lo aveva ucciso la paura; così diceva radio borgata...
Mio padre non mi confermò mai questa circostanza. Nei suoi occhi non vidi mai la rivalsa saziata dalla morte, che altri invece manifestavano contro i Galatolo, quando furono distrutti dalla furia omicida dei loro nemici.
Mio padre esprimeva pietà per la dura sofferenza esistenziale (miseria, carcere, ostracismo ed infamie) che essi si ritrovarono ad affrontare per almeno 20 anni.
Negli anni 70 gli stessi che avevano palesemente goduto della morte e dell'inferno esistenziale che aveva colpito i Galatolo nella metà degli anni 50, tornarono ad essere loro fedelissimi servi, lacché e presta nomi 20 anni dopo... (sic.)
La metà degli anni 50, sono quelli in cui, grazie alla frequenza scolastica, m'affaccio alla vita esterna alla famiglia vissuta fra la casa di mia nonna Amalia, sita nei paraggi di via Montalbo e la nostra casa sita in via Castellana falde: in quel tempo mio padre dovette scontare forse anche ingiustamente alcuni mesi di carcere per la lite avute da ragazzo, almeno un decennio prima, che si tramutò poi in condanna perchè non si difese in Tribunale... per omertà pagò ingiustamente quella che era una legittima difesa, dall'aggressione d'un suo coetaneo che poi divenne delinquente abituale.
Quei 3 e/o 4 mesi vissuti senza il mio papà, mi segnarono moltissimo; odiavo lo Stato e qualsiasi cosa lo rappresentasse... Vivevo quella in quella sanzione giudiziaria, come un'insanabile ingiustizia; e forse lo era davvero.
La via Castellana Falde è parallela alla via Pietro Bonanno che costeggia il Montepellegrino e la nostra casa a pianterreno, si trovava all'altezza della villa Vincenzo Buscetta, fratello di don Masino, sita in via Pietro Bonanno.
I loro figli, Antonio e Benedetto (figli di don “Masino”) e Antonio e Domenico (figli di Vincenzo) furono fra i miei primissimi compagni di gioco... dei quattro miei amici d'infanzia qui citati ben 3 sono morti già da molti anni per saziare l'infame vendetta criminale; a Dio piacendo dovrebbe invece essere vivo, Antonio (fratello più grande di Domenico e figlio di Vincenzo Buscetta) che oggi dovrebbe contare quasi 60 anni... di tutti è quattro o solo ricordi belli, anche se poi la vita assegnando ruoli e scelte esistenziali diversi ad ognuno di noi ci ha allontanato in modo irreversibile... ma, quando penso a Benny, l'altro fratello di Antonio e Domenico, ucciso insieme a suo padre Vincenzo dentro la loro vetreria sita nei paraggi di via Lazio a Palermo, la rabbia dentro di me si fa più forte contro i criminale; mai, e poi mai quel ragazzo che contava circa 5 anni più di noi compagni di gioco, per sua intrinseca bontà d'animo, poteva avere a che fare con la mentalità “don Masino”o di suo padre che non era mafioso, anche se voleva apparirlo.
Intorno all'anno 1958, insieme a tanti altri bambini e tanti adulti della nostra piccola borgata ai piedi del Monte Pellegrino, fui testimone della meschina mafiosità di “don Masino” contro un giovane che aveva avuto un incidente d'auto con lui; non so se la mia rivalsa contro la mentalità criminale della mafia scatto quel giorno e/o per quello che avevo visto, sentito e/o ero già stato spettatore in quei miei primissimi anni di vita: so solo che l'antipatia e la salutare rivalsa che sentivo contro di lui, in quanto mafioso, quel giorno si rafforzo e si sfogo in un grido di “gioia” quando un pomeriggio, intorno all'anno 1960, i poliziotti dopo molti tentativi a vuoto, riuscirono ad arrestarlo: era nascosto dietro una vetrata del salone, in casa di suo fratello Vincenzo, nella villa di via Pietro Bonanno: quel palese gioire di noi bambini che tifavamo per i poliziotti, costò ad ognuno di noi qualcosa... un richiamò, un duro ammonimento; per qualcuno, anche uno stupido quanto crudele ceffone del padre.
Nei miei ricordi, e da quel pomeriggio che poi i figli dei Buscetta non giocarono più con noi, “nel campo di calcio” che ci eravamo costruiti ai piedi della montagna, proprio fra la loro villa e “la grotta del condannato” grazie ai “buoni uffici” di “don Masino” che da un lato, aveva dato una calmata a “pecorai”, “vaccari” ed allevatori di capre da latte, che si lamentavano del fatto che, gli avevamo stroncato un importante pezzo di pascolo per i loro animali e dall'altro ordinò ai camionisti che lavoravano nel sacco edilizio di Palermo di portarci, la terra buona e le pietre per livellare il pendio dei piedi della montagna.
L'anno 1962, ci trasferimmo nuovamente nella borgata di via Montalbo; in via Ruggero Loria N 51, ormai la famiglia s'era ingrandita eravamo già 6 figli.
Sento ancora il caldo umido delle mie lacrime; oggi lo so, non piangevo solo perchè lasciavo i miei tantissimi amici, con i quali fra scorribande emozionanti, esplorazioni sul Montepellegrino e nelle grotte dell'Addaura, guerre contro quelli dell'Acquasanta, teste rotte e legnate da orbi, alla fine d'ogni partita di calcio e tante, tantissime altre cose che, nel bene e nel male, mi sono rimaste dentro per sempre. Piangevo anche perchè sapevo, che mi ero lasciato alle spalle i momenti più belli della mia vita; ora ero obbligato a crescere in fretta per sopravvivere nella palude, delle periferie palermitane, dove la vita, i diritti e la dignità degli uomini valeva ben poca cosa.... quasi niente.
Nel corso di quei miei 13 anni di vita, furono molte le occasioni che mi diedero la possibilità d'esser spettatore di fatti delittuosi nella borgata a più alta densità mafiosa della città ( zona Monte Pellegrino, Porto, Cantieri Navali, Mercato Ortofrutticolo, Villa Igea, Fiera del Mediterraneo). Noi ragazzini, già a 7 -8 anni al primo giungere delle notizie, anche a distanza di qualche km correvamo subito nei luoghi degli agguati e/o degli scontri per vedere i volti dei morti ammazzati: poi più grandicello, imparai che se volevo capire il mondo con il quale la sorte, m'aveva imposto di convivere, più che i morti ammazzati, dovevo guardare i volti dei presunti “curiosi” e dei familiari delle vittime; e poi osservarli mentre si parlavano con gli occhi.
Ho frequentato la scuola fino alla seconda media; poi vinto dallo sconforto economico della mia famiglia ( ero il primo di 6 figli e mio padre non aveva un lavoro continuo) abbandonai la frequenza scolastica contro il parere dei miei familiari, pensando di poterli aiutare.
Avevo 13 anni quando per esigenze esistenziali, iniziai quell’avventura lavorativa che m’avrebbe portato a conoscere nella sua intera profondità i malesseri storici della mia comunità, dove il governo criminale del circuito economico garantiva in ogni suo risvolto, lo sfruttamento umano. Privo del libretto di lavoro, cominciai le mie esperienze nel settore dei Bar dove la mano del crimine e del riciclaggio era molto marcata.... Di questi momenti, (di scuola esistenziale) accenno ad un noto Bar Ristorante della metà degli anni 60 sito ancora oggi in via Marchese di Villabianca, dove mi trovai benissimo, perchè il non giovanissimo (intorno ai 60 anni) Direttore italo americano, mi considerava, un ragazzo di sicura formazione mafiosa (sic.).
Quando mi dovette “licenziare” perchè involontariamente lo avevo scoperto mentre sbracato nella poltrona del suo ufficio, allattava letteralmente la giovane e bellissima banconista del settore dolciumi; oltre ad una ricca mancia (almeno 5 volte della paga settimanale pattuita) dopo la telefonata di rito mi consegnò una lettera per il “cavaliere” titolare di un ormai inesistente Bar, sito in Piazza Don Bosco.
Con il mio temperamento ed il mio carattere, potei durare ben poco in quell'ambiente governato pittorescamente in gergo mafioso con guardaspalle sempre presenti.
Un bastardo bestione di questi, accorso in difesa del figlio “del cavaliere” con il quale avevo avuto uno scontro quasi fisico per il fatto che, lo avevo mandato a quel paese per le angherie che voleva impormi, mi porto nei locali interni e mi massacro di schiaffi e calci... questo cane mi lasciò andare via solo a tarda sera e solo dopo che i postumi di quelle legnate divennero meno evidenti... costui, che tutti chiamavano con rispetto signor Greco aveva poco meno di 40 anni ed io ne avevo solo 13.
Debbo ammettere che forse voleva darmi un solo schiaffo intimidatorio che, porto alla mia imprudente reazione di rispondere con gli stessi argomenti, ma quella sera giurai che l'avrei ammazzato... per mia e sua fortuna anni dopo, da un ragazzo che aveva lavorato con me in quel locale di mafia appresi che l'avevano ammazzato già.
Non ero un ragazzino facile per quel mondo di sfruttatori e lacché della cultura mafiosa e per questo motivo fino ai successivi miei 15 anni cambiai molte volte mestiere, ma non durai in alcun artigiano o ditta per più di due o tre settimane.
Non riuscivo a convivere pacificamente con la filosofia di chi oltre a non pagarmi, mi sfruttava e pensava d’essermi padrone solo perchè m’avrebbe dovuto insegnare un mestiere; anche in questo settore, mi vide protagonista di altri fatti che hanno lasciato il segno.... ma stavolta ai prepotenti e agli sfruttatori.
Nel mese di dicembre dell’anno 1964 ebbi finalmente il mio libretto di lavoro e per guadagnare abbastanza, per aiutare la mia famiglia andai a lavorare nel settore edile dove però la presenza mafiosa era molto più marcata e visibile e lo sfruttamento umano ancora più indegno: anche questa fase della mia vita fu segnata da continui ricerche di nuovo lavoro, che sempre per mia scelta cambiavo con la speranza di trovare un minimo di rispetto delle regole e della dignità umana: deserto completo.
Avevo 18 anni quando per la prima volta in vita mia entrai nella veste di operaio delle ditte appaltatrici dentro quel cantiere navale di Palermo al quale fin da bambino avevo sempre guardato con speranza per il mio futuro di uomo libero; ma ero caduto dalla padella alla brace: la ditta che mi aveva assunto nella qualità di pontista navale era governata da strettissime filosofie mafiose ed interamente controllata dal boss Michele Cavataio.
Malgrado tutto, resistendo alla mia voglia di ribellione, ero riuscito a guadagnarmi in quella ditta uno spazio di vivibilità. Speravo di poter aspirare poi all’assunzione diretta nell’azienda Cantieri Navali, in quel tempo proprietà dei Piaggio.
L’occasione si presento con ottime prospettive circa un anno dopo, ma proprio i caporali ed i titolari di quella ditta pur di non farmi assumere, grazie “ai legami” con la gestione amministrativa del Cantiere Navale fecero in modo che si consumasse contro di me la più indegna delle ingiustizie... per questo motivo mi licenziai in malo modo anche se consapevole dei personaggi che andavo a maltrattare verbalmente.
Quella volta la rinuncia fu molto dura: anche se super sfruttato, con quella gentaglia in qualche modo ogni mese, prendevo uno stipendio che oltre a consentirmi d’aiutare la mia famiglia mi dava anche una minima indipendenza economica; quella volta, pur di non sottostare alla volontà mafiosa, che pensava d’avere acquisito in me un ragazzo volenteroso ed affidabile(?) accettai la dura prova di tornare alle più elementari privazioni esistenziali.
Fino alla mia chiamata al servizio militare, ottobre dell’anno 1969, fù ancora un continuo saltellare da ditta in ditta nel settore edile dove sempre pur di non cedere alla sopraffazione umana e morale mi licenziavo dopo qualche settimana, lasciando sempre l’impronta del mio passaggio: fra questi imprenditori ci fu anche quel Piazza che solo 30 anni dopo la Magistratura inchioderà alle sue responsabilità mafiose.
Durante il servizio militare ebbi modo di recuperare i miei profondi limiti culturali attraverso la lettura di libri: m’appassionavano maggiormente, la saggistica ed i testi filosofici che imparai ad amare grazie ad un commilitone che studiava filosofia.
Quei 14 mesi vissuti fra Casale Monferrato, Novi Ligure IV Batt.-157 Reg.-Fanteria Meccanizzata e Genova sede del Reggimento, m'insegnarono che il volto del nostro Stato è uguale alla qualità del nostro impegno umano, sociale e culturale: nessuno ha mai regalato la libertà e la democrazia ai popoli, a nessun popolo del mondo.
Il 12 gennaio del 1971, tornato a casa dal servizio militare, proprio quando lo sconforto stava sconfiggendomi del tutto e m’apprestavo a lasciare la mia comunità; la sorte m’aiutò a mettere con le spalle al muro il racket delle assunzione, che gestito da sindacalisti e corrotti dell’ufficio di collocamento si collegava a tutte le aziende di buon interesse ed all’amministrazione pubblica: il controllo di “cosa nostra” era (si potrebbe dire) totale... in quell'ufficio si poteva regolarizzare l'assunzione retrodatata
di quei poveri disgraziati che morivano per incidenti sul lavoro e/o s'infortunavano gravemente e con danni permanenti...
Di ciò avevo già in quel tempo, una testimonianza parentale, con la morte sul lavoro di un giovane cugino di mia madre.
Quella volta mi ero recato all'ufficio di collocamento per aver il “Nulla Osta” che m'autorizzava ad iscrivermi negli uffici di collocamento della città di Torino, dove un amico occasionale mi aveva trovato lavoro in una Ditta che operava a Nichelino; quella volta la sorte mi fece cogliere in pieno fallo un impiegato che incassava la tangente e dopo averlo bastonato come meritava, minacciando di mandarlo all’altro mondo ( non era una semplice minaccia) ottenni seduta stante di essere inviato al lavoro.
Erano le circa le ore 18 del 18 febbraio del 1971 quando ottenni ciò in cui avevo sperato per tutto l’arco dei miei primi venti anni di cittadino senza diritti: quella volta pretesi ed ottenni l’invio al lavoro direttamente alle dipendenze del Cantiere Navale di Palermo che dopo la morte per mano mafiosa di Michele Cavataio, nel settore degli appalti sembrava essersi sgombrato dall’imperante e visibile governo criminale.
Nella seconda metà degli anni 70 (dopo la pesante mareggiata che distrusse il porto di Palermo, con i lavori di ricostruzione del porto ed il cantiere navale di Palermo) grazie all’afasia Istituzionale ed alle evidenti compromissioni politici e sindacali, “cosa nostra” aveva ancora una volta raggiunto altissimi livelli di sfacciato governo di tutti gli appalti esistenti dentro lo stabilimento navale: i protagonisti criminali erano i Galatolo, figli e nipoti dei perdenti nella guerra di mafia degli anni 50; miei coetanei della stessa borgata con i quali nel passato non avevo mai voluto consolidare alcun legame d’amicizia perchè consapevole della loro dedizione al delinquere.
I Galatolo, erano rientrati nello scenario cantieristico di Palermo, grazie ad un piccolo imprenditore (Mario Cinà) che fino all'anno 1972, aveva lavorato alla SEBEN (cantiere navale di Napoli, ormai sparito dallo scenario industriale) dove poi aveva dovuto e/o voluto (per chiara indicazione di “cosa nostra”) fare spazio ad Amedeo Pecoraro, boss del Borgo Vecchio di Palermo, ben collegato in nell'ambiente napoletano.. in buona sostanza tutto era stato ben predisposto dall'interno dell'organizzazione criminale, in accordo con chi ben sapeva come si muovevano le prospettive economiche e politiche della cantieristica navale.
Ai Galatolo si uniranno in rapporto di “fraterna collaborazione” i Rao ed i Ruisi, che fino agli inizi degli anni 70, con la loro ditta di pulizie operavano, nella Stazione Centrale di Palermo, dove guarda caso, con la loro uscita di scena avevano fatto spazio, ad una Coperativa legata ai partiti di sinistra.
Agli inizi degli anni 80, non ero più il sognatore dei primi 30 anni: in quel tempo avevo già la mia famiglia e due bambini; ero amaramente deluso dall’imperante ingiustizia e consapevole della infima contiguità politica e sindacale che da destra a sinistra contribuivano a negarci ogni minima speranza di riscatto civile. M’apprestavo ormai a diventare uno dei tanti cittadini e lavoratori che avevano imparato le regole della sopravvivenza, in quell’inferno dove le regole, la giustizia ed il rispetto della dignità umana restavano inesorabilmente relegati alle ipocrisie delle buone intenzioni del sistema comunità; nessuno e niente escluso.
E con l’assassinio del compagno Pio La Torre, ed il successivo arrivo a Palermo del Generale Dalla Chiesa, che la sorte m’indusse, anzi mi costrinse ad entrare in scena contro la mafia e tutto il corollario politico, sindacale, sociale e istituzionale che la fiancheggia; a ciò aveva contribuito notevolmente il coraggio del Dottor Giuseppe Cortesi, che denunciò e fece arrestare i Galatolo ed i Rao e Ruisi, che lo avevano minacciato, a seguito d'un appalto perso.
Il Dottor Giuseppe Cortesi, condizionato ambientalmente e sicuramente anche perchè aveva ben capito come funzionava il teatrino economico-istituzionale, poi fece molti passi indietro... per questo lo chiamammo in causa nell'esposto del mese di maggio 1987, sottoscritto da 120 lavoratori... per capire basta leggere la sentenza contro il clan Galatolo, nella parte che riguarda il contributo (sic.) dato dal Dottor Giuseppe Cortesi all'accertamento della verità.. non scordiamoci che lui, lasciò il cantiere navale di Palermo restando però nelle alte sfere delle Partecipazioni Statali.
L’aver legato la mia vita ad un “possibile progetto” di liberazione per oppormi insieme ai miei compagni di lavoro all'indegno disegno politico-industriale che vedeva fra i suoi protagonisti, l'organizzazione criminale non permise a “cosa nostra” d’attuare il suo ricatto sulla mia vita: per suo conto altri si presero l’onere della ritorsione poi consumata con i modi e le modalità già ben note.
Constatata la totale inaffidabilità di quel PCI Regionale nel quale militavo da 20 anni, della Fiom Cigl e del sindacato, il 10 maggio del 1987 scrissi un esposto denuncia alla Procura della Repubblica di Palermo che feci sottoscrivere da 120 lavoratori del cantiere navale, con il quale denunciavamo il controllo mafioso dello stabilimento navale; mi esposi deliberatamente contro “cosa nostra” con la speranza che almeno la Procura di Palermo avesse la libertà d’imporre la legalità dentro la più grande realtà industriale: già in quel tempo molti, troppi valorosi Magistrati e uomini delle Istituzioni, avevano pagato con la vita i loro alto senso dello stato... non potevo non volevo credere che fossero morti per nulla; ma cosa significa veramente mafia si può capire solo acquisendo piena conoscenza di questi fatti....
Da mesi cercavo di collegarmi al Direttore del nostro giornale aziendale, “Dopolavoro Notizie” Gaspare Miraglia che nei suoi editoriale, assumeva una posizione legittimamente durissima, contro il sindacato e contro la direzione aziendale... ogni volta che chiedevo di lui gli esponenti sindacali che dovevano necessariamente ben conoscerlo, mi rispondevano con evasive indicazioni.
Eppure era facilissimo darmi indicarmi l'ufficio dove Gaspare Miraglia lavorava.
Finalmente dopo un continuò chiedere e cercare, che segnalava anche la preoccupazione di molti farisei, finalmente m'incontrai con Gaspare.
Da quel momento quel giornale aziendale, divento uno strumento di denuncia, del quale si dovette aumentare la tiratura, per il particolare interesse mostrato dai lavoratori, che finalmente non lo giudicavano più un palliativo Dopolavoristico.
In questo sito, troverete alcuni articoli fotocopiati dagli originale, di quel glorioso giornale che i sindacalisti riuscirono ad uccidere per annullare la memoria... (sic.)
Nel mese di giugno dell’anno 1988 cogliendo l’occasione che nuovo segretario nazionale del PCI: era stato eletto Achille Occhetto che aveva avuto come trampolino di lancio la segreteria regionale del PCI degli anni 70 e sembrava vicino ai lavoratori del cantiere navale di Palermo; scrissi allo stesso un accorato appello che mi fu sottoscritto da ben 518 compagni comunisti dello stabilimento navale: il Segretario Nazionale di quello che ritenevo fosse ancora malgrado tutto il partito più leale con i lavoratori, non rispose mai al nostro grido di dolore.... Al posto suo, oltre alla minacce di “cosa nostra”, con la solita filosofia stalinista, risposero altri che in Sicilia con il PCI e con la Cgil si costruivano le loro fortune personali e politiche.
Per nulla scoraggiato dagli inquietanti silenzi che circondavano la mia battaglia civile; nel mese di maggio del 1989, scrissi e feci sottoscrivere ai miei compagni di lavoro, un accorato appello al Sindaco Leoluca Orlando ed alle Associazioni della società civile che sembrava volessero contrastare il potere mafioso: in quei giorni lo stabilimento navale viveva la punta più alta della cassa integrazione e nello stabilimento erano presenti circa 500 lavoratori che firmarono immediatamente l’appello; ad essi se ne aggiunsero altri 250 che dopo le ore di lavoro venivano a trovarmi nel negozio di mia moglie per firmare l’appello che alla sua spedizione per gli indirizzi interessati, contava 754 firme.
Questa lettera al Sindaco di Palermo, sembrò segnare una nuova attenzione da parte delle istituzioni politiche.... ma, poi dovetti prendere atto che era tutto un gioco delle parti, difficile da gestire e da sconquassare per un uomo solo, che doveva fare i conti, anche con le debolezze umane, economiche e familiari dei suoi compagni di lotta.
L'unico dato positivo di quella lettera aperta, fù quello che si riuscì finalmente a portare fuori dalle mura dello stabilimento navale, e pubblicamente anche a livello Nazionale quelle denunce che reiteravamo da molti anni e che tutti (Istituzioni comprese sic.) facevano finta di non conoscere.
Quella lettera aperta, segno anche la mia adesione al “Coordinamento Antimafia” di Carmine Mancuso e di Angela Lo Canto, (la vera protagonista) attraverso i quali ebbi poi la possibilità di collegarmi a Nando Dalla Chiesa, e di conoscere personalmente Stefano Santoro, che proprio durante la rituale “fiaccolata” del 3 settembre 1989, volle conoscere approfonditamente i fatti dello stabilimento navale, promettendo a me ed ad Angela Lo Canto, un impegno di merito incisivo: dovevamo solo attendere che predisponesse bene le cose, contro la probabile alzata di scudi, da parte del PCI e della CIGL.. (sic.)
Nel successivi tempo storico, il vittimismo di Stefano Santoro mi farà capire, quanto sia profondamente inaffidabile, la vera natura dell'uomo quando deve difendere i suoi interessi economi e sopra tutto di potere...
Il 31 ottobre del 1988, (dopo ben 7 anni durante i quali con espedienti arroganti s’impediva il rinnovo del consiglio di fabbrica per non darmi modo di rappresentare ufficialmente i miei compagni di lavoro) si svolsero le elezioni del consiglio di fabbrica, dove grazie ai miei compagni di lavoro riuscì ad imporre la mia candidatura nelle liste della Fiom Cigl e ad essere eletto malgrado le calunnie e la l'isolamento posto in atto dai segretari provinciali ed i loro accoliti del direttivo politico.
Nel mese di gennaio 1989, al mio primo giorno di responsabile della RSU aziendale per conto della Fiom Cigl, Vito e Raffaele Galatolo fratelli del più tristemente famoso Vincenzo, tentano d’intimorirmi dentro lo stabilimento nel pieno delle mie funzioni sindacali: m’apprestavo a denunciarli, ma fui bloccato dai “buoni uffici” delle segreterie sindacali che mi fecero chiedere scusa dai boss....
I due mafiosi anche di fronte all'evidenza, negarono che fossi io l'oggetto delle loro minacce ed anzi si scusarono per l'equivoco... (sic.)
Nella primavera dell’anno 1989 con una grande massa di voti fui eletto anche nel consiglio direttivo del CRAL Aziendale dove poi grazie al voto del componente della Cisal, riuscimmo a sconquassare gli accordi delle segreterie sindacali Fim, Fiom e UILm, e pretesi ed ottenni la carica di Segretario Amministrativo. Tutto fu posto in essere per garantire e proteggere l’esistenza del nostro giornale dal quale da due anni lanciavamo le nostre denunce sulle corruttele sindacali e sulla presenza mafiosa dentro lo stabilimento navale; e sia perchè volevo porre fine alle ruberie ed ai clientelismi che si consumavano a danno dei lavoratori.
Azienda e sindacato Cigl in testa, da due anni chiedevano la chiusura di quel giornale aziendale: lo ritenevano uno strumento che ledeva la loro dignità. (sic.)
Attraverso il nostro giornale aziendale “Dopolavoro Notizie” nel mese di agosto del 1989 denunciai lo scandalo delle tavole per ponteggi regalate attraverso fittizia documentazione al boss Vincenzo Galatolo: in buona sostanza il nuovo direttore dello stabilimento Antonino Cipponeri riconosceva e pagava il ruolo dei criminali dentro lo stabilimento navale.
Nel mese d’ottobre del 1989 non ignoti vandali, nottetempo devastarono i locali del Dopolavoro Aziendale prestando particolare cura al mio ufficio distruggendo ogni cosa ed ogni documento che m’apprestavo ad esaminare, dopo aver scoperto le ruberie di alcuni sindacalisti e componenti del direttivo amministrativo: anche quella volta si registrarono forti anomalie da parte dei preposti Istituzionali.....[.....]
A seguito di questi ultimi fatti, il 2 novembre del 1989 organizzai contro il parere del sindacato, un’assemblea sciopero ad oltranza per denunciare alla pubblica opinione, la presenza mafiosa dentro lo stabilimento navale, che unitamente alla forte compromissione sindacale ed alla totale assenza Istituzionale a fronte dei fatti denunciati da noi lavoratori, permetteva a Fincantieri di spegnere in una comunità piena di bisogni come Palermo, ben 3.200 posti di lavoro su un totale di circa 3.700 senza alcuna opposizione socio-politica e quel che è peggio, senza alcuna progettualità, se non quella di quei prepensionamenti che hanno arricchito i sindacati e distrutto le risorse pensionistiche delle giovani generazioni, e l'utilizzo dei Fondi Europei per corsi di riqualificazione (sic.) gestiti dai Sindacati Confederali e comp.
La partecipazione dei lavoratori alle ore 8, fu quasi totale; poi grazie agli uffici “amichevoli” dei mafiosi (Vincenzo Galatolo per l'occasione vestiva la tuta Fincantieri), dei sindacalisti e del direttore dello stabilimento che giravano fra i lavoratori invitandoli a tornare al lavoro, intorno alle ore 11 e solo dopo l’intervento dei media (TV e giornalisti) la grande maggioranza dei dipendenti tornò al lavoro.
La gente era terrorizzata e schifata di tanta unisona concertazione dove i boss acquisivano piena ed arrogante legittimità anche sotto gli occhi di Giornalisti e TV accorsi in gran numero: le diedero notizia della rivoluzionaria protesta, la stampa no.
Nel gennaio e/o febbraio 1990 i Galatolo e molti loro accoliti, furono arrestati per l'affare “Big.Jhon” nave che attraverso mai chiariti palliativi, aveva trovato ospitalità nei pontili del cantiere navale di Fincantieri
Qualche giorno dopo, il Ministro della Marina Mercantile, attraverso notizie stampa, chiese d'essere ascoltato dalla Procura di Palermo, per garantire, alla stessa (sic.) che non esiste mafia nel Porto di Palermo: in buona sostanza giustificava e garantiva “ogni errore di quell'ipotesi investigative” che non dovevano assolutamente entrare nel merito delle forti, costanti e ormai quasi decennali, denunce di noi lavoratori.
Mi opposi a tanta arroganza “Ministeriale” (sic.), ed il 7 marzo dalle pagine del quotidiano “L'Ora” risposi per le rime a quel Ministro, che si guardò bene dal rispondermi; ovviamente la Procura di Palermo tacque, anche in presenza del fatto che, da ben 3 anni i lavoratori denunciavano alle istituzioni, ai politici ed alla società civile, la presenza criminale dentro lo stabilimento navale palermitano e che per questo, poco più di due mesi prima (2 novembre 1989) s'era svolta la protesta denuncia ad oltranza di noi lavoratori di Fincantieri.
In compenso però si faranno sentire le intimidazioni mafiose, attraverso i telefoni, i consigli ultimi ai miei parenti prossimi a cominciare dalla mia povera madre, ecc..
E poi non poteva mancare il mio sindacato, la Fiom Cigl che l’8 luglio1990 per intimidire i miei compagni di lavoro e tentare il mio isolamento, mi espelle accusandomi di aver costituito un nuovo sindacato: fra i maggiori protagonisti di tanta viltà, coperti dai politici e dalla Cgil Regionale si distinsero i fratelli Lupo che poi hanno avuto figli in galera, condannati per associazione mafiosa.
L’espulsione dal sindacato non intimorì ne me, ne tanto meno i miei compagni di lavoro che non mi lasciarono mai solo: ciò m’incoraggio a continuare con le denunce e le battaglie contro la presenza mafiosa dentro i cantieri navali di Palermo; scrivendo un'accorata lettera aperta al Presidente della Repubblica che fù ripresa e pubblicata anche dai giornali nazionali e dalla Rai.
Per questo il 31 ottobre del 1990 Fincantieri, a termine turno di lavoro, in uno scenario da congiura, nella portineria operai mi consegnò una raccomandata a mano con la quale entro 5 giorni, m’intimava di ritirare le mie dichiarazioni alla stampa.
A quella lettera risposi che non avevo nulla da ritirare o chiarire; è che anzi era giunto il momento che Fincantieri chiarisse le sue posizioni, a fronte delle mie dure critiche e delle denunce formulate assieme ai miei compagni di lavoro.
Ero fermamente convinto e così lo erano tutti i miei compagni di lavoro ed i “miei amici” politici che Fincantieri non poteva osare un licenziamento tanto scandaloso.
Il 5 novembre 1990, primo giorno utile per prendere decisioni disciplinari nei miei confronti così come minacciato nelle lettera di contestazioni; non accadde nulla....
Fù così fino a tutta la giornata di lavoro del 13 novembre: il tardo pomeriggio di quel giorno ero stato impegnato in un pubblico dibattito “I diritti e le Regole” presso il gremitissimo “Piccolo Teatro a Palermo (molta gente era rimasta fuori) ed avendo constatato fino a quel giorno, che Fincantieri non aveva preso nei miei confronti alcun provvedimento disciplinare, durante il mio intervento fui molto pacato e costruttivo contro quella che in ogni caso era, l’azienda che mi dava lavoro.
Il mondo mi crollò addosso quando tornato a casa, quella sera trovai mia moglie ed i miei figli in lacrime; Fincantieri aveva notificato, in mia assenza, la lettera di licenziamento alla mia famiglia per sconquassare, il già fragile equilibrio della mia serenità familiare, che in quei giorni era oggetto di continue minacce telefoniche.
Il giorno successivo i giornali diedero notizia che Fincantieri mi aveva querelato per diffamazione a mezzo stampa...(?)
Con la procedura d’urgenza attivata dai miei legali, l’allora deputato regionale e avvocato Alfredo Galasso e l’avvocato Vincenzo Gervasi ebbi immediatamente ragione ed il Pretore il 1 dicembre di quell’anno ordinò il mio reintegro nel posto di lavoro in attesa del processo che si sarebbe svolto successivamente.
La bellissima notizia mi colse mentre mi trovavo a Nicosia, impegnato in un Convegno, insieme a Leoluca Orlando, Anna Finocchiaro del PCI, oggi PDS e tanti altri che si riempivano la bocca di valori; forse, fatto salve poche persone e gli studenti presenti per l'occasione, nella sala Consiliare del Comune di Nicosia, i valori che circolavano, erano solo di tipo bancario.
Fincantieri, fiancheggiata dalle compromissorietà sindacali e politiche prese atto della sentenza pagandomi tutte le spettanze economiche ma, non permise mai il mio ingresso nello stabilimento: nemmeno in occasione delle assemblee sindacali dove i miei compagni per paura, sempre più debolmente, reclamavano la mia presenza...
Consapevole di non aver mai ed in alcun modo leso gratuitamente la dignità di alcuno, affrontai le conseguenze procedurali di quella querela con estrema serenità.
Anche se le dichiarazioni più pesanti le avevo formulate sul “Manifesto”, Fincantieri propose querela per diffamazione nella Procura di Catania adducendo che la dichiarazione, era stata pubblicata sulla “Sicilia” giornale di quella città: ciò mi portò ad accettare la non richiesta ma, espressa disponibilità a difendermi, d'un avvocato catanese che si diceva antimafioso e militava nella mia stessa area politica, “la Rete”.
Tutto appariva inconsueto, inspiegabile e la mia totale ignoranza sulle questioni procedurali e processuali non mi permisero di capire in tempo, quali “difficoltà difensive” si stavano predisponendo contro le mie serene ragioni di uomo libero; fù così che con una pretestuosa e infamante accusa, Antonino Cipponeri mi tenne 8 anni ostaggio di quella querela, fino alle scuse ed al ritiro incondizionato della stessa. (gennaio1998). Quando la Giustizia lo vorrà, potrà farsi largo anche in questo risvolto della mia storia che segna inequivocabilmente le difficoltà dei siciliani che non vogliono arrendersi alla mafia....
L'ingiusta sentenza di primo grado, aveva registrato anche le scuse dell'avvocato Gioacchino Sbacchi, il quale ebbe a dirmi:
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Solo anni dopo mi resi conto del motivo che “aveva costretto” Fincantieri ad un licenziamento tanto scandaloso, camuffato con la pretestuosa diffamazione di cui, ebbe poi i vantaggi delle “mie difficoltà” difensive: ecco cosa era accaduto.
Il 12 novembre, (come consueto in quei giorni) l’officina dove lavoravo dentro lo stabilimento navale era meta di centinaia di miei compagni di lavoro che venivano ad esprimermi la loro solidarietà sfidando mafiosi, azienda e sindacalisti corrotti.
Un gruppo di lavoratori ed alcuni capi mi fecero constatare che dal maggio 1987 e cioè da quando avevamo fatto l’esposto alla Procura della Repubblica che mi era stato sottoscritto da 120 lavoratori, l’azienda accumulava in una parte, dello stabilimento, poco visibile dall’esterno, milioni e/o forse centinaia e centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti tossici e speciali: quello stesso pomeriggio mi recai all’Assemblea Regionale dove parlai dei fatti con il deputato Regionale Franco Piro che subito dopo diede seguito ad una interpellanza parlamentare ed il rituale comunicato stampa che il giorno dopo fu pubblicato solo dalla solita redazione palermitana della “Sicilia” di Catania.
Avevo toccato un tasto molto pericoloso ed “avevo costretto” inconsapevolmente Fincantieri allo scandaloso e clamoroso licenziamento: non riuscivano a fermarmi ed in gioco c'erano moltissime centinaia di miliardi di fondi, della Comunità Europea.
Quando nell'anno 1993, compresi il vero motivo del mio tentato licenziamento, mi resi conto che l’usuale ingiustizia giudiziale non si era consumata del tutto contro lo scrivente, perchè a Palermo si sarebbe screditata del tutto, quella che appariva una nuova stagione di libertà dal condizionamento mafioso; ma, in ogni caso Fincantieri, con il mio allontanamento dallo stabilimento navale e godendo delle difficoltà Istituzionali e dai rombanti silenzi politici, aveva ottenuto un risultato molto utile per continuare a farsi beffa della Costituzione della legge e dei palermitani onesti..
Di fatti, Fincantieri prese atto della sentenza Giudiziaria, ma non mi permise mai di rientrare dentro lo stabilimento navale: mi pagava gli emolumenti senza per questo farmi rientrare nel mio ruolo di lavoratore e di sindacalista eletto dai lavoratori.
Nel mese di giugno dell’anno 1992 con un argomentato e documentato esposto alla Procura di Palermo, dimostrai pittorescamente il livello compromissorio fra la dirigenza Fincantieri e “cosa nostra”.... il 16 luglio di quello stesso anno fui ascoltato dal PM che da più di tre anni chiamo in causa, (via D'Amelio) che insieme ad altro suo collega verbalizzò le mie ulteriori argomentazioni: ma poi non accadde nulla...
Paolo Borsellino, conosceva ed aveva copia quel documentatissimo e argomentato Esposto; immediatamente dopo la strage, il tarlo del dubbio s'insinuò dentro l'animo mio, che assolutamente si rifiutava di dargli l'onore di sospetto: era come se qualcuno, avesse cercato d'insinuare dentro di me, che mia moglie, mi tradisse!.. Solo 10 anni dopo mi resi conto che...
Già all'indomani della strage di via D'Amelio, alcuni miei fedeli e leali amici, decisamente convinti del fatto che, quelle stragi erano si, state eseguite da “cosa nostra” ma, su ordine della mafia che ha il volto delle Istituzioni, mi proposero di organizzarci in setta segreta armata, e costituire una sorta di violenta incertezza fra le cosche dei vari mandamenti: avremmo dovuto uccidere, con il sistema di agguati eclatanti e nelle zone di appartenenza, diversi attori criminali, di cui era certa per voce di popolo (“boss”) l'appartenenza a “cosa nostra”.
Le violente azioni che, s'intendevano di legittimo patriottismo, in quel momento storico, avrebbero potuto rompere il ferreo rapporto di fiducia fra i “boss” dei vari mandamenti e scatenare quindi una guerra all'interno di “cosa nostra” mettendo in crisi, anche il molto probabile infame controllo politico-istituzionale, di quelle stragi e dei loro fedeli esecutori.
L'idea mi piacque, ma la ragione prevalse ed ebbi un gran da fare per spiegare a quei miei fratelli e veri compagni di sani valori, che quella scelta era impossibile d'attuare, perchè metteva in campo troppi nemici contro di noi e contro le nostre famiglie.
<> dissi loro <>
Nella Palermo del dopo stragi, il negozio di mia moglie sito in via Dei Cantieri, che era il mio rifugio e punto di ritrovo con i miei amici, i miei compagni di lavoro e la gente della borgata, fù l'unica attività commerciale che nella città di Palermo e forse nel Paese espose un lenzuolo manifesto con le immagini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con l'aggiunta di frasi durissime, manoscritte contro “cosa nostra.
La gente ma, anche molti giornalisti, fra i quali, il mio amico Fabrizio Carrera del Giornale di Sicilia, il mio amico Michele Guccione della “Sicilia”, il mio amico Rino Cascio del “Manifesto” ed oggi della Rai, l'esperto di mafia Attilio Bolzoni, che abitava a pochi metri del mio negozio e tantissimi altri giornalisti, ho ragione di credere che non potrebbero mai, smentirmi.... detto questo e giusto che si sappia, che sopra tutto i Gianni Minoli e gli Stefano Santoro, che in quei giorni costruivano reportage e dibattiti televisivi per la Rai, i Maurizio Costanzo (sic.) e tutta l'informazione più in generale, ignorò quel clamoroso fatto, che andò in scena per anni; si doveva ignorare, cancellare la mia storia... la storia d'un cittadino, d'un lavoratore, d'un sindacalista eletto dai lavoratori che veniva retribuito dalle Partecipazioni Statali e messo ai margini della società civile dai media Nazionali e dalle Istituzioni.... la verità che serviva a quel sistema per sfuggire alle sue colpe, era un'altra e bisognava scriverla con le presunte verità, delle storie lacrimevoli di altri. Il dato più triste registrato in quei giorni fù quello che, Domenico Pipitone, figlio di Antonino, espose nella sua Tabaccheria (in quel tempo sita in Largo Villaura;oggi in via Dei Cantieri) un foglio raffigurante Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Era stato “convinto” al gesto che copiava l'iniziativa del mio negozio, da una militante dei DS in cerca di candidature politiche al Comune di Palermo, del gruppo delle lenzuola palermitane che era venuta espressamente a congratularsi con me pere il nostro lenzuolo esposto.... fu lei stessa a dirmi che il tabaccaio di Largo Villaura aveva assunto quella “coraggiosissima iniziativa”.
Misi immediatamente in guardia questa assistente Sociale che era già diventata amica di Domenico Pipitone, la misi in guardia senza mezze parole; ma, evidentemente quella signora aveva altre ragioni da portare avanti... (sic.)
Tanto per essere precisi, Antonino Pipitone che personalmente negli anni 80 ho visto insieme a Bruno Contrada è uno, forse l'unico fra i boss palermitani che è riuscito ad attraversare indenne tutti i cambi di guardia del potere mafioso-criminale andati in scena dagli anni 50 fino ai nostri giorni, nel mandamento che va da Partanna Mondello al Porto ed al Mercato Ortofrutticolo di Palermo... tutti sono morti e/o sono stati seppelliti in nelle celle più profonde delle galere, lui no... Radio borgata ha sempre insinuato una sorte di “sbirritudine buona” (politica), che con le relazioni con i Bruno Contrada, garantiva a “cosa nostra” la tranquillità nei comparti illegali, riguardanti gli appalti ed il lavoro più in generale.

A conferma, di quello che appare un “uomo protetto da “certe istituzioni” e bene sapere che quando costui fece uccidere la propria figlia, che aveva costretto a sposare “un uomo” (sic.) che non amava, perchè tradiva il marito indesiderato, con il ragazzo che quell'indegno padre gli aveva impedito di amare e sposare, e dopo che l'uomo che quella ragazza amava (un suo largo parente) si suicidò buttandosi giù da un altissimo balcone di un palazzo di via Guido Jung) radio borgata cominciò a sussurrare che l'onore (sic.) di don Nino Pipitone era salvo; la rapina dell'Arenella, dove era stata uccisa sua figlia era stata tutta una messa in scena.
Radio borgata, dava l'annuncio di questo fatto già nel mese di ottobre dell'anno 1983; dovettero passare 7 anni prima che la giustizia attraverso Marino Mannoia prendesse nota dei fatti.... mi viene difficile a credere che nessuno sapesse, fra Carabinieri e Polizia... e difficile che loro non sapessero un fatto che sapevano tutti e di cui tutti mormoravano perchè così voleva il boss... perchè si doveva sapere....
Sui sopra citati, esponenti della grande informazione nazionale c'è molto di più in ordine a quelle che mi piace ancora oggi definire “difficoltà” professionali...
Nell’aprile del 1993, informato dai miei compagni di lavoro che tutti i milioni di rifiuti tossici e speciali che erano stati ammassati dentro lo stabilimento navale fin dall’anno 1987 venivano in quei giorni (in occasione della costruzione del nuovo bacino in muratura di 150.000 TN) venivano affondati in quei giorni nel mare, dentro i cassoni di cemento armato che formano oggi i laterali del bacino, ed i restanti sotterrati insieme alle grandi condotte fognarie che deviano il corso degli scarichi cittadini, che fino a quei giorni scaricavano nella costa dello stabilimento navale.
Confortato dalla mia diretta conoscenza dei fatti e dal supporto fotografico e documentale dei miei compagni di lavoro, ancora una volta scrissi un adeguato e documentato Esposto alle Autorità competenti: non sapevo che esisteva già un Esposto che denunciava le stesse cose, ma nel porticello dell'Acquasanta, presentato dal Presidente “dell'Associazione Biportisti” (il compagno e professore Daidone) che peraltro era stato pesantemente minacciato inducendo lo stesso PM ha sollecitare una tutela per i teste esponente dell'Esposto.
Solo casualmente (in avanzata sede Processuale sic.) sia lo scrivente che il Daidone, apprendemmo di aver fatto la stessa cosa (Esposto) senza sapere l'uno dell'altro e quando ci confidammo i fatti ed il Daidone mi racconto delle minacce e dei provvedimenti del PM a sua tutela, gli posi la seguente domanda:<<>>
Il povero Daidone dovette convenire con me, sui molti inquietanti dubbi.
Quel giorno dovevo esser finalmente sentito come teste in aula, per quel Processo che ormai s'avviava a morire di prescrizione; tant'è che quel giorno quel “Processo” subì un rinvio, proprio ad inizio seduta.... (sic.)
Quel giorno colsi l'occasione per chiedere alla PM:<>
La PM preoccupata ma, volendo apparire sicura di sé, mi disse:
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Fui convocato alla successiva udienza (pomeridiana) il PM era cambiato e sperai che il bolognese tanto pubblicizzato dalla stampa come promettente Sost Procuratore della Pretura di Palermo, potesse liberare un po' di verità e giustizia.
Fu così che alla prima domanda, scattai dentro l'infernale scenario della produzione di quei rifiuti, dei suoi manipolatori dei modi in cui venivano affondati a mare, sia dentro lo stabilimento navale che nel porticello dell'Acquasanta, facendo i nomi di Antonino Cipponeri, altri dirigenti aziendali, dei mafiosi Galatolo e loro accoliti e via via sempre più dentro l'infame scenario..
Il Pretore una signora che poi incontrerò in un Convegno pubblico contro la mafia e che stranamente nel vedermi fuggirà letteralmente, il nuovo e promettente PM e gli avvocati degli imputati, cercarono più volte di fermarmi, ma non riuscirono in questo intendimento; ero un fiume in piena...
Nei giorni a seguire, andai a trovare quel PM bolognese, che quel pomeriggio in aula era rimasto stupito dalla mia lunga deposizione che chiamava in causa “cosa nostra”.
Su quel PM metto un velo pietoso, anche se resta pesantemente presente un dubbio, anzi un velenoso sospetto da chiarire:
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Questo esposto e le foto di merito sono disponibili nei documenti di questo sito.
Il 6 ottobre dell’anno 1994 il potere che ha il volto delle istituzioni, vinse contro quell’uomo che “cosa nostra” non poteva uccidere impunemente e che quindi per accordi politici, economici ed istituzionali doveva diventare un morto civile: una sentenza del tribunale dava ragione a Fincantieri che in quei 4 anni era riuscita a costruirsi le condizioni per tanta vergognosa “giustizia”...
Quella sentenza ha goduto delle “difficoltà” del “mio amico” e avvocato Vincenzo Gervasi che dopo la strage di via D'Amelio cominciò a fuggire dalla mia storia.
Ma, di una cosa debbo dargli atto, così come mi scrisse nell'anno mese di febbraio del 1996, per riavvicinarsi a me (ben due volte ed ho, sia le lettere che un testimone credibile e galantuomo):
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In effetti leggendo le indegne omissioni della Prefetto e del Questore di Palermo di quel tempo (relazione della Commissione Antimafia), si capisce perchè. (sic.)
Avevo vicino la gente e malgrado tutto e tutti, anche molti miei compagni di lavoro, che mettevano a rischio la loro serenità lavorativa e familiare pur di starmi vicino. Forse è per questo che non mi lasciai mai sopraffare dalla voglia di atti disperati.
La gente della mia borgata e molti lavoratori del cantiere navale scrissero di loro pugno almeno 700 lettere all’allora Presidente della Commissione Antimafia On. Tiziana Parenti che a seguito di queste sollecitazioni mi ricevette a Roma il 20 ottobre del 1994: ero convinto che un Governo diverso da quello formato da i “miei amici” politici poteva avere un atteggiamento diverso nei confronti dell’ingiustizia Istituzionalizzata e per questo consegnai a quel Presidente un voluminoso fascicolo di documenti: ma fù tutto vano...
Nel dicembre del 1994, ero ormai un uomo prossimo alla rinuncia della ragione: Fincantieri arrogantemente conduceva il giuoco come gli piaceva; riusciva a non concedermi nemmeno la possibilità di difendermi attraverso l’utilizzo dei tatticismi dei suoi avvocati e sfruttando “le mie difficoltà difensive” in quel processo d’appello alla mia condanna per diffamazione... anche il cambio di avvocato non aveva sortito nulla di nuovo... “le mie difficoltà” erano uguali e/o peggio di prima....
Per questo, in occasione delle festività natalizie, scrissi una durissima lettera lesiva alla dignità di Antonino Cipponeri: volevo indurlo a querelarmi per calunnia, per poi in quell'istruttoria ed in quel processo, evidenziare le vergogne consumate contro un uomo che aveva avuto la sola colpa di credere nella Giustizia e si schierava senza secondi fini a fianco, dello Stato e delle sue Istituzioni.
La lettera fù spedita a mezzo raccomandata il 19 dicembre 1994; Antonino Cipponeri tramite un mio fedelissimo mi mando la risposta tre giorni dopo: <<>>
Difatti la risposta, dopo essersi preannunciata con il mio totale isolamento ambientale, ( la gente non era più disponibile a rischiare la propria serenità per una battaglia che anziché vedere lo Stato al nostro fianco, attraverso le sue pesanti inadeguatezze lo vedeva oggettivamente collegato agli interessi che s’intendevano combattere) arrivo puntualmente la sera di mercoledì 8 marzo del 1995, quando intorno alle ore 19,45 circa trovai ad attendermi a pochi metri da casa mai l’emergente figlio (Vito) del boss Vincenzo Galatolo che fiancheggiato da altri 5 o 6 suoi degni compari con pesanti minacce mi porto la risposta alla lettera che avevo scritto ad Antonino Cipponeri; tutto era stato organizzato nei minimi particolari: per l’occasione i boss avevano predisposto la presenza di molti loro fiancheggiatori, almeno 50 fra commercianti e pseudo imprenditori del cantiere navale che attardandosi per l’occasione davanti ad un bar gestito da parenti di mafiosi “poi pentiti” il giorno dopo hanno avuto il compito di raccontare delle coraggiose gesta del giovane figlio di Vincenzo Galatolo che era riuscito a distruggere moralmente e nella sua dignità; Gioacchino Basile....
Quella sera dovetti solo subire: non potevo nulla contro quei cani che m’avevano circondato in stretta misura; non potevo farmi ammazzare sotto gli occhi dei miei figli e di mia moglie. Ma, dovevo aspettare il giorno dopo per constatare quanto poca cosa, fosse stata l’umiliazione di quelle minacce, in confronto al ruolo che quei commercianti e quei pseudo imprenditori, che la filosofia governativa delle verità re-interpretate, vuole quasi sempre vittime del potere mafioso, assunsero contro la mia onorabilità e del mio orgoglio di uomo libero.
I fatti si erano svolti in una piovigginosa serata di mercoledì e nella via Montalbo, oltre a registrare la chiusura di tutte le attività commerciali di quella strada-mercato, segnava anche la quasi totale assenza dei non “addetti ai lavori”: chiunque fosse passato poco prima o durante l'evento criminale, conoscendo il copione che stava per andare in scena, sapeva che doveva immediatamente sparire.
La mattina successiva, il mio orgoglio di uomo libero e la mia stessa dignità, per la gente della mia borgata ed i miei compagni di lavoro erano soltanto un remoto ricordo: Gioacchino Basile non esisteva più....
Come sempre la tenacia e la forza d’animo furono gli elementi che m’aiutarono a tirarmi fuori, per salvare almeno il mio orgoglio ed il mio onore di uomo libero.
Il già pluriomicida e boss fra le pieghe delle sue minacce, ebbe a dirmi:<<>>
Dopo appena tre giorni, dalle conferme a verbale, in ordine alle minacce di cui ero stato oggetto la sera dell'8 marzo 1995, la notte del 19 febbraio non ignoti vandali incendiarono il negozio di mia moglie.
Il Dottor Luigi Patronaggio, da onesto e leale servitore delle Istituzioni, agendo da figlio di buona madre riuscì a sconfiggere le “difficoltà” resistenti nella Procura di Palermo ed ottenuta la giusta condanna di Vito Galatolo (figlio del boss stragista Vincenzo Galatolo- personaggio gradito alla dirigenza di Fincantieri Palermo), il 12 luglio 1997, grazie anche alle verità dei pentiti la giustizia, cominciò a squarciare lo squallido scenario statalista, che vedeva protagonisti i criminali.
Lunedì 28 luglio 1997, per mettere al sicuro la mia famiglia, fui costretto insieme a loro ad archiviare le nostre storie, ad abbandonare la nostra città, i nostri affetti, la nostra casa e l’attività commerciale di mia moglie.
Subito dopo, cominciarono a palesarsi più pesantemente le difficoltà del Dottor Luigi Patronaggio, che dovette abbandonare la Procura e seppur in via provvisoria, (lui che era un esponente di punta di quella Procura) andò a fare il Pretore a Bagheria... (sic.)
Al suo posto, nello scenario investigativo che riguardava “cosa nostra” ed i suoi compagni di merenda, entro lo stesso Magistrato, che nel mese di luglio del 1992, aveva mancato clamorosamente l'appuntamento con quella verità e quella giustizia che erano stati negati clamorosamente a noi lavoratori di Fincantieri, dall'anno 1982 malgrado la stagione del “pentitismo” gli esposti alla Procura, le denunce pubbliche e la moltitudine dei fatti registrati dalla cronaca giudiziaria e dalla stampa ...
Nel 1998, dopo più di un anno di forzato esilio, tornai a Palermo in qualità di Consulente del Sindaco della città e d’allora pur di continuare le mie battaglie di libertà, quando ero a Palermo, dormivo in un alloggio della Caserma della Polizia, Pietro Lungaro.Il 1° giugno 1999 la Commissione Antimafia e il Governo Nazionale imposero la mia riassunzione a Fincantieri.
Ho vinto così, (da vivo) la prima vera battaglia contro la mafia; nel nostro Paese.
Nel dicembre dello stesso anno, per motivi di opportunità presentai le dimissioni in cambio d'un lavoro per mio figlio, fin troppo penalizzato, dalle mie battaglie ideali.
Dal 1999 insieme a tanti altri concittadini iniziai il cammino contro le debolezze Istituzionali e le convenienze politiche che attraverso la propaganda Governativa sull’equivoco del Racket delle estorsioni mafiose, (“pizzo”) rappresentano “cosa nostra” come un’organizzazione criminale che riesce ad imporsi solo attraverso la sua azione intimidatrice; mentre, al sud del Paese tutti sanno che i criminali consolidano il loro potere grazie al consenso economico-ambientale costruito dall’inadeguatezza Politica e Istituzionale: in questo contesto i veri estorti in ordine economico e morale sono i cittadini, i disoccupati senza speranza, i lavoratori senza diritti e gli operatori economici onesti, che debbono subire in silenzio la concorrenza sleale dei capitali mafiosi e le loro regole.
La nostra Società è ancora oggi governata dall’artifizio clientelare che produce bisogni e costringe la gente a inchinarsi all’estorsione delle regole mafiose ed elettorale; per resistere alle più elementari necessita esistenziali....
Non è facile smontare questo triste teatrino, che conosco bene nella sua natura e nei suoi protagonisti ad ogni livello Politico Istituzionale e Sociale; giornalisti, politici, villantatori e/o miseri eroi di carta che si sono costruiti un “ruolo” sfruttando le storie lacrimevoli, vere, presunte o totalmente re-interpretate di vittime del racket... Equivocando sul vero senso eziologico del cosiddetto “pizzo”.

Continua..... nei prossimi giorni.

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